Degli studiosi italo-americani spiegano il paradosso: il periodo della primissima infanzia, di cui non abbiamo memoria, è in realtà centrale per la nostra futura capacità mnemonica.
Lo studio, pubblicato su Nature Neuroscience, spiega: “A due-quattro anni lo sviluppo cognitivo di un bambino ha già completato la sua fase iniziale. La finestra critica per lo sviluppo della memoria inizia piano piano a ridursi già a questa giovane età”.
Cristina Alberini, coordinatrice della ricerca e professoressa al Center for Neural Science della New York University spiega: “Quel che abbiamo scoperto suggerisce che il cervello dei bambini ha bisogno di essere attivato e stimolato anche prima dell’età delle materne. Altrimenti il sistema nervoso rischia di non sviluppare a pieno le sue funzioni di memoria e apprendimento”. Quindi libri illustrati, racconti, filastrocche, luoghi, volti nuovi sarebbero un aiuto importante per lo sviluppo della memoria.
Questa fase dell’infanzia è un periodo in cui il cervello del bambino impara a ricordare, ma il paradosso è che di questa fase non si ricorda proprio nulla. Il fenomeno è noto come “amnesia dell’infanzia”. Sono state formulate varie ipotesi per spiegare questo fenomeno:
- L’incapacità di formare ricordi duraturi potrebbe essere causata semplicemente dall’immaturità dell’ippocampo, l’area del cervello cruciale per la formazione dei ricordi di lunga durata. Oppure potrebbe essere il risultato della tumultuosa formazione di nuovi neuroni e nuove connessioni, processo che interferirebbe con il consolidamento delle memorie.
- Un’altra ipotesi – quella sostenuta fra gli altri dall’équipe italo-americana – è che invece i ricordi dell’infanzia non vengano affatto dimenticati. Ma, come un secchio abbandonato in fondo a un pozzo, diventino semplicemente impossibili da ripescare. Il loro effetto per l’equilibrio psichico futuro sarebbe in realtà grande. E usando il grimaldello giusto – come i ricercatori hanno fatto nel loro esperimento sui topolini di laboratorio – sarebbe possibile recuperarne almeno le tracce. “Se il ricordo di un’esperienza viene sollecitato quando i ratti sono adulti (presentando elementi che facciano ricordare, come ad esempio la gabbietta in cui era stata somministrata la scossa), la memoria di quell’evento specifico ritorna: forte, chiara, a lungo termine e specifica per quella esperienza” scrivono gli autori dello studio.
“Nella prima fase della vita – spiega ancora Alberini – anche se il cervello non riesce a formare ricordi a lungo termine in maniera efficiente, è impegnato a imparare come farlo. Per riuscirci ha bisogno di essere stimolato tramite l’apprendimento, in modo che si eserciti in continuazione. Senza questa pratica, la capacità di imparare dei sistemi neurologici finirà con l’essere ridotta”.